giovedì 16 dicembre 2010

Lab. MTLG - La costruzione di un oggetto


Proseguono alcune esperienze interessanti all'interno del laboratorio di Metodologia e tecnica del lavoro di gruppo presso il corso di Laurea in Scienze formazione primaria dell'Unimol. Settimana scorso le studentesse suddivise in due sottogruppi hanno avuto il compito di realizzare un oggetto rappresentativo del gruppo stesso, rispettando tre categorie: tridimensionale, gradevolezza estetica e solidità.
Dopo una prima fase di progettazione, caratterizzata per un confronto intenso e partecipato, i gruppi si sono messi al lavoro con un numero preciso di risorse: 5 cartelloni colorati, 1 nastro adesivo, 1 colla, 1 paio di forbici, pennarelli e post it.
I risultati sono stati davvero eccellenti sia per il rispetto dei criteri assegnati sia per la fase di debriefing durante la quale si è sviluppata un riflessione sui ruoli assunti, le modalità comunicative, le modalità di lavoro e la soddisfazione rispetto al risultato. Qui alcune foto.

giovedì 2 dicembre 2010

Lab. MTLG - P4C


Interessante webconference realizzata durante le lezioni del Laboratori in Metodologia e tecnica del lavoro di gruppo presso l'Unimol sul tema della Philosophy for Children. Jessica, maestra della scuola dell'infanzia G. Sega ha presentato attraverso una videochat un'esperienza di lavoro di gruppo con bambini di cinque anni sul tema della filosofia. Ha presentato i capisaldi della C4P e l'attività realizzata attraverso un laboratorio condotto con circa 10 bambini. La presentazione è stata molto apprezzata e penso che sia un'esperienza sicuramente da replicare. Il collega e amico prof. Filippo Bruni ha pubblicato alcune foto dell'evento nel suo blog.
Un caloroso ringraziamento a Jessica.

venerdì 16 aprile 2010

Apprendere nel cambiamento. In preparazione al Convegno Poliambulanza 10 Maggio 2010

Alcune riflessioni in preparazione del convegno  Persona e Organizzazione: tra(s)formazione e itinerari che si terrà il 10 Maggio 2010 presso Fondazione Poliambulanza - Brescia, durante il quale presento una relazione dal titolo: Apprendere nel cambiamento: la promozione dell’Uomo e lo sviluppo dell’organizzazione.
Ogni commento è apprezzato.


Con questo intervento vorrei proporre alcune riflessioni, a partire da tre affermazioni ricorrenti durante i corsi di formazione. Le tre affermazioni, che rappresentano dei rischi per la formazione, sono così sintetizzate:

a) "Qui è facile parlare, ma la realtà è un'altra cosa" . Il primo rischio per la formazione è quello di essere ritenuta "solo parole, mentre i fatti sono un'altra cosa".  Si potrebbe tradurre come il perseverare il distacco tra teoria e prassi, tra modelli e operatività
b) La seconda affermazione tipica è: "Qui tutto sembra possibile ma poi non cambia assolutamente nulla". Il secondo rischio per la formazione è dato dall'essere sterile, non promuove cambiamento, non genera nuove azioni individuali e organizzative. In altre parole "replicare la staticità", le ingessature, non promuove nuove opportunità, mantiene il valore delle posizioni dominanti.
c)La terza affermazione, è pronunciata solitamente dai formatori/docenti: "Ma alla fine i corsisti compilano un questionario di gradimento?" Il terzo rischio è dato dal considerare l'aula inizio e fine di un momento che deve essere per forza gradevole. Si rischia di avere una formazione "miope", con il fiato corto, si vede l'aula e i problemi senza aprirsi ai risvolti organizzativi, ci si occupa del qui e ora, perdendo di vista i grandi orizzonti. Oppure i partecipanti utilizzano il questionario di gradimento, verso un docente interno, per esprimere una vedetta, una ritorsione, attraverso un giudizio negativo non centrato sulla formazione ma legato ad altri eventi. In entrambe i casi, si perde di vista l'evento formativo nel suo valore di prospettico e sistemico.

Da qui tre possibili attenzioni, traiettorie, criteri con cui immaginare la formazione futura:
  1. Riguardo al primo rischio "sono solo parole, mentre i fatti sono un'altra cosa" l'attenzione che ne deriva è quella di RIEMPIRE LE PAROLE, dare peso alle parole, riempire di contenuti, di significati. La formazione è opportuno che con convinzione abbia il coraggio di partire dall'esperienza e ritornare all'esperienza. Per far questo si possono mettere in luce almeno due stimoli:
a)              L'attività di formazione è importante che nasca dalla ricerca sul campo, dall'osservazione delle pratiche, dall'analisi, dall'interpretazione dei fatti. Sembra scontato che ciò che viene detto nelle aule abbia un riscontro nella realtà, ciò è sostenuto solitamente dalla frase "le nostre ricerche dicono che" usata non poco da consulenti, docenti , formatori, senza effettivamente dimostrare quali ricerche sono svolte, come sono realizzate, quale consistenza evidenziano. La formazione e la ricerca possono dar vita ad un terreno di confine e di scambio in cui ciò che guida è la volontà di fare passi avanti. La ricerca è espressione stessa della formazione, della volontà di apprendere, di conoscere, di migliorare. Alcuni oggetti di ricerca ovviamente richiedono tempi, metodi, contesti particolari. Ciò non toglie che l'attività di formazione debba conseguire direttamente dai risultati raggiunti dalla ricerca. E' tempo ormai di evitare modelli generici che lasciano il tempo che trovano. La formazione attraverso metodi sempre più situazionali deve affiancare i partecipanti per declinare modelli e metodi all'interno dei propri contesti, traducendoli in operatività, buona pratica e attivando un cambiamento concreto.
b)            Un secondo stimolo può essere dato da b) La formazione è importante che affronti i problemi dell'operatività. Occorre dare peso alle parole ancorandole alla realtà di chi tutti i giorni "è in trincea", di chi lavora sporcandosi le mani. Non possono passare sopra la testa nella loro leggerezza e astrazione senza modificare per nulla la pratica. M. Corsi (presidente SIPED) indica che i fini dell'educazione (libertà, responsabilità e autonomia) sono "pesanti" e "pensanti" ovvero "espressione virtuosa della progettualità e dell'impegno quotidiano dell'educatore insieme all'educando, che rifugge dal conto meschino delle convenienze, delle utilità e dell'opportunismo". Rafforzare le parole con le attività concrete equivale a dare voce ai partecipanti, riconoscere loro il "potere" (empowerment) di guidare il timone della formazione e dei processi di apprendimento, un giocarsi del formatore in prima persona, senza maschere e scenografie. Riempire le parole vuol dire allora optare per una formazione significativa (J.D. Novak) in cui il baricentro non è il sapere del docente replicato a manovella dai parecipanti (vedi i corsi sulla normativa per la sicurezza), ma la possibilità per loro di ricostruire attivamente il proprio sapere, coinvolgersi globalmente nell'esperienza di formazione. Vuol dire optare per una formazione autentica (D. Simeone), in cui i soggetti sono capaci di togliere la maschera, di porsi in ascolto attivo, di un confronto schietto e serrato. Infine una formazione pratica che sappia incidere nella realtà, dia le condizioni per modificare l'agire delle persone, trasformare le mentalità e, quindi, solleciti un cambiamento culturale.
  1. Riguardo al secondo rischio quello di "replicare la staticità" la strategia che ne emerge è quella di TRAVALICARE I CONFINI (boundary crossing). Il primo grande muro da travalicare, come viene cantato in una canzone, è quello presente nelle nostre teste. Rappresenta una divisoria, un ostacolo, molte volte diviene una vera e propria unità di misura per valutare gli altri. Nel mondo del lavoro e della formazione, questa divisione, si esprime in molti modi: nella distanza tra le generazioni (si pensino alle generazioni che saltano il turno), tra gli esperti e i novizi, fra capi e collaboratori, tra docenti e allievi, tra uomini e donne. Il rischio è quello che se la formazione non sprona ad una trasformazione degli assetti si perdono innumerevoli risorse e opportunità. La formazione deve aiutare a scoprire nuovi percorsi, nuovi modelli, evitando che le nuove generazioni replichino (per necessità) vecchi modus operandi. Steve Jobs (fondatore di Apple) in un discorso tenuto nel 2005  alla Stanford University, esorta i ragazzi che ascoltano a non perdere tempo a vivere la vita di qualcun'altro, a replicare chi li ha preceduti, a non rimanere intrappolati in schemi già dati, ma senza distrarsi, dice loro: "seguite il vostro cuore e le vostre intuizioni". La formazione deve alimentare l'innovazione e il cambiamento, superando steccati e confini professionali e disciplinari, in altre parole, la formazione è l'incontro con ciò che è nuovo. Un bel libro dell'AIF di qualche anno fa, dal titolo "Nuovi alfabeti. Linguaggi e percorsi per ripensare la formazione" sollecita a comprendere e promuovere nuovi alfabeti, nuovi linguaggi, nuove sfide che alimentano l'agire formativo. I processi di apprendimento, di miglioramento, di cambiamento sono quindi movimenti orizzontali fra territori di sapere, ricordando Vygotskij, l'apprendimento avviene per zone prossimali di sviluppo e Yrio Engestrom, dell'Università di Helsinki propone un approccio denominato "expansive learning", ovvero un apprendimento per estensione, espansione, un superamento di confini. Ciò vuol anche dire superare le paure del confronto, moltiplicare le relazioni, il web 2.0 ne è un esempio, di fatto è un rompere gli schemi, superare ritualità che danno sicurezza a favore di contaminazioni  che tante volte sono già realtà.
  2.  Infine, rispetto al terzo rischio, avere una formazione "miope", la sollecitazione che ne consegue è ALZARE LO SGUARDO saper guardare lontano e da lontano. Questo permette di evidenziare 3 aspetti:
a) alzare lo sguardo per comprendere la complessità delle situazioni: la realtà infatti è un interagire sistemico, multilivello, ma anche inaspettato, molte volte rapsodico, una molteplicità di singoli eventi che è possibile correlarli solo a posteriori. Saper guardare da un punto di vista differente, a volte più distaccato permette di comprendere il senso di ciò che accade, l'evolversi delle attività. Sole se si alza lo sguardo ricercando una visione d'insieme, collegando i punti delle diverse esperienze, è possibile dare un senso e comprendere la relatività della propria posizione.
b) alzare lo sguardo per guardare oltre, per anticipare gli eventi, per capire quello che si nascone oltre l'apparenza delle cose, dei discorsi, delle persone, dei loro gesti. Ricorda Saint-Exupéry nel Piccolo Principe che l'essenziale è invisibile agli occhi.
c) alzare lo sguardo per non perseverare a testa bassa, evitando confronti e dubbi, ma guardare e camminare con chi è al proprio fianco, non aver timore di esprimere la propria opinione, andare a testa alta consapevoli delle proprie capacità, talenti, risorse; in altre parole è un risvegliare la voglia di giocarsi, accompagnata però dalla volontà di assumersi responsabilità; è un ricercare modalità di espressione, ma con l'impegno di contribuire attivamente al miglioramento; è la possibilità di sentirsi attori e protagonisti del cambiamento, consapevoli che il primo passo è il riconoscimento del valore dell'altro.
Conclusioni
Riempire le parole, travalicare i confini, alzare lo sguardo rappresentano prospettive di attenzione per una formazione che potrebbe fare un salto di qualità, assumendo come dovere una progettualità non solo applicata alla formulazione corso, ma una progettualità dei processi di apprendimento delle persone che vanno ben oltre allo logica del corso, una progettualità dello sviluppo professionale, una progettualità dei contesti di lavoro che rappresentano gli effettivi luoghi di apprendimento continuo, veri e propri workplace learning. La crescita professionale rapprensenta, quindi, la principale finalità della formazione e la risorsa prioritaria per le azienda per conseguire gli obiettivi auspicati.


Bibliografia:
M. Corsi, Il coraggio di educare, Vita e Pensiero, Milano, 2003.
Y. Engestrom, A. Sannino, Studies of expansive learning: Foundations, findings and
future challenges, in Educational Research Review 5 (2010) 1–24.
J.D. Novak, L'apprendimento significativo, Erickson, Trento, 2001.
D. Simeone, Educare in famiglia, La Scuola, Brescia, 2009.
S. Bonometti, Apprendere nei contesti di lavoro. Prospettive per la consulenza formativa, EUM, Macerata, 2008.
S. Maioli, L'apprendimento sul campo, in S. Maioli e M.P. Mostarda,  La formazione continua nelle organizzazioni sanitarie, McGraw Hill, 2008.

giovedì 1 aprile 2010

Un'esperienza con i medici

In questi giorni, con alcuni colleghi, abbiamo terminato un progetto di consulenza organizzativa presso una struttura Ospedaliera con più presidi nella provincia di Brescia. Il progetto ha preso avvio con un'indagine di clima organizzativo per i medici di primo e secondo livello sviluppata attraverso sessioni di focus group e la somministrazione di un questionario costruito ed adattato ad hoc.
L'analisi dei risultati ha prodotto un report attraverso il quale sono state condivise con la direzione e i medici le criticità più rilevanti. Con una scelta lungimirante della Direzione e un articolato lavoro di relazioni del Servizio Formazione si è proseguito il progetto con l'attivazione di tre gruppi di miglioramento, ognuno focalizzato su una specifica criticità, con l'obiettivo di analizzare il problema, ipotizzare proposte risolutive e delineare azioni di intervento. Il tutto si è concluso con una presentazione alla direzione generale e sanitaria dei risultati raggiunti e la concretizzazione delle prossime decisive azioni per produrre i cambiamenti auspicati.
A margine di questo interessante e proficuo lavoro di consulenza e ricerca mi sono venute in mente due immagini: la prima immagine rimanda al gioco di formare una figura collegando dei puntini numerati; la seconda rimanda alla parabola dei lavoratori della vigna.
a) unire i puntini: ciò che può dare valore formativo all'esperienza svolta da parte dei medici è la volontà di volgersi indietro e rivedere il percorso fatto, osservare ogni evento passato e provare ad unire queste esperienze come fossero punti isolati. In base ai propri vissuti, emozioni, pregiudizi, attese, frustrazioni e successi ogni medico può realizzare una forma, un'immagine, un di-segno attraverso il quale rappresentare il significato attribuito all'esperienza. Ciò che emerge è la possibilità di una molteplicità di immagini differenti, ognuna legata allo sguardo di ogni singolo medico, questa molteplicità che rappresenta di fatto una realtà sociale costruita è una grande risorsa, è espressione della ricchezza presente, è la molteplicità che connota la cultura di appartenenza. Lo sforzo da fare è avere il coraggio del confronto, non considerare la propria prospettiva come l'unica possibile, l'unica vera realtà, ma come uno sguardo parziale che necessariamente deve convergere con quello di altri. Inolte, unire i punti e trovare un significato a posteriore porta con sé un messaggio importante: non tutto si rivela al primo momento, non sempre ciò che si fa nel presente mostra il suo senso in modo immediato. Molto è possible spiegarlo o capirlo solo a posteriori.
b) la parabola dei lavoratori della vigna: l'immagine è quella di un cantiere aperto in cui è fondamentale il contributo di tutti. Ognuno è importante che sia un esperto o un novizio, che abbia grande anzianità aziendale o solo un neoassunto. La realtà è molto complessa e il contributo di tutti è decisivo. Inoltre, è importante che non ci si attivi solo su gratificazioni esterne, che portano a confornti continui, ma la propria azione deve risiedere in una passione per la propria professione (dimostrata di fatto dalla maggior parte dei medici incontrati) che permette di non perdere tempo ma affrontare con professionalità e concretezza le contraddizioni che quotidianamente si mostrano dinanzi.

venerdì 26 marzo 2010

Riflessioni interculturali

Il 18 marzo ho partecipato ad un seminario organizzato dal Corso di Laurea in Infermieristica dell'Università Cattolica - Poliambulanza di Brescia sul tema dei malati stranieri. La riflessione che ho presentato si è sviluppato secondo alcune fasi.
Il rischio che si presenta nell'affrontare una riflessione sugli stranieri è dato dall'etnocentrismo, ovvero considerare la propria cultura come l'unità di misura di ogni cosa. La cultura di appartenenza diviene un limite alla capacità di vedere "oltre da sè", un vincolo alla possibilità di conoscere modalità differenti di vivere la realtà. In altre parole, la cultura rischia di essere considerata come qualcosa distante dalla realtà, un sistema ideale con il quale misurare l'esperienza. Si attua una sorta di reificazione della cultura (G. Mantovani), un tirar fuori la cultura dalla realtà e attribuirle una sorta di valore ideale, o meglio ideologico. Va da sè che tale prospettiva aggrega la cultura ad una logica geografica e territoriale attribuendole un confine e una chiusura, con l'illusione di un'omegeneità interna solida e immodificabile. Da qui emergono ovviamente gli stereotipi sia deduttivi sia induttivi come principi per attribuiri giudizi alla diversità che si incontra. Ciò è frutto di una "banalizzazione" della complessità.
Un modo diverso di considerare la cultura e l'incontro fra culture è necessario.
La cultura è una sorta di sistema di segni, significati, strumenti, artefatti che ci permettono di conoscere e al tempo stesso costruire la realtà. Sono artefatti materiali e immateriali posti come mediatori strettamente connessi con le pratiche sociali. Le persone incorporano il sistema culturale che permette di mediare la conoscenza della realtà e al tempo stesso ne promuovono una trasformazione continua, modificano permanentemente il sistema culturale.
Il riferimento a Piaget e a Vygostkij è doveroso. L'apprendimento avviene attraverso un processo mediato con l'ambiente. Tale mediazione è data dalla dimensione culturale che non può essere disgiunta, astratta, omogenea, ma situata e in permanente trasformazione.
Il linguaggio è parte del sistema culturale, tale dimensione è impossibile che sia distante dalla realtà, anzi è incorporato, intriso, costitutivo delle pratiche sociali in quanto media la conoscenza della realtà. La raltà diviene "costruita" attraverso categorie culturali sempre parziali e relative. Ogni cultura è parte di una rete culturale.
Le barriere culturali non sono altro che zone di confine, zone prossimali di sviluppo culturale, permeabili, in cui è possibile integrare le pratiche sociali differenti.
E' necessario superare il paradigma geografico/spaziale delle culture, a favore di un paradigma pragmatico (P.C. Rivoltella), centrato sulle pratiche sociali e culturali in cui soggetti/attori provenienti da esperienze differenti riconoscono oggetti di confine (boundery object) attraverso i quali ricercare confronto e integrazione (P.G. Rossi, Toppano).
La quodianità diviene opportunità per superare le possibili contraddizioni costruendo nuovi modelli culturali.
La cura del malato straniero può essere un Boundery Object in cui si incontrano pratiche sociali differenti, sistemi di attività differenti che condividono medesimi oggetti per raggiungere risultati condivisi (Y. Engestrom).
Il malato con la sua famiglia, la comunità degli infermieri, dei medici ospedalieri, delle risorse territoriali sono sistemi di attività con specifiche culture professionali che possono dar vita a nuovi modelli di cura e di assistenza. Nel superare le contraddizioni è possibile espandere il proprio sapere (expansive learning) per trasformare i propri sistemi culturali e ricercare un'integrazione fra modalità d'agire differenti.
Si avvalora un rapporto di reciprocità fra differenze viste come risorse, le quali trasformano i confini in zone di sosta, di incontro, di confronto e di nascita di nuove culture.